10.20.2006


LA RETE DELLA PERFORMANCE

La creazione artística è un richiamo potente all'immaginario.
L'arte tocca, come un lampo folgorante e imparabile, gli strati più profondi dell'essere. Essa fa a meno degli intermediari culturali necessari al sapere. È conoscenza diretta, permette l'accesso immediato alle fonti dell'emozione. L'arte è, innanzi tutto, la comunione visionaria, la fusione inaspettata dell'alchimia del desiderio con il piacere della scoperta.


Nel panorama dell'arte attuale, la Performance - arte totale, arte vivente, dialogo al di là dei confini e delle
barriere - rappresenta un modo efficace per interrogare il reale e per svelare il poetico. Essa e una vera rivoluzione dello sguardo.


In questo contesto, l'artista é un nomade é un fabbricatore di miracoli. Va là dove il dialogo è possibile e atteso, e ci svela il suo affascinante universo. Utilizza dei linguaggi nuovi, sintetici, premonitori. Egli parla dell'essenziale, francamente e senza fronzoli. I suoi interventi sono il catalizzatore che ridà a ciascuno la necessaria purezza della percezione.

E il pubblico diventa cosi un partecipante integrale, capace di proiettare a sua volta sull'artista l'energia delle sue passioni. I pubblici dell'arte della Performance sono vari quanto i luoghi dell'azione, dal momento che non sono stereotipati, né neutrali, né conformisti, né consenzienti.

INTERACTION,
a Cagliari, diventerà sua volta un anello importante della galassia performan­ce in Europa. L'effimero prenderà nuovamente un posto decisivo nelle memorie, e il confronto delle pratiche, sinonimo di arricchimento recíproco, sarà il perno dell'incontro.


Egidio Alvaro (Parigi, giugno 1988)

LA PERFORMANCE
TRA TEATRO, MUSICA E ARTI VISUALI


Un termine inglese,
divenuto di dominio internazionale, perdefinire una sarta di spettacolarizzazione diffusa in diversi momenti dell'arte, dello sport, del sesso, del circo e dello studio, non puo essere qui prese in considerazione per la vasta gamma di definizioni a cuí puo dar luogo.


Difficilmente traducibile in italiano
(per-formare, compiere, recitare),
a noi interessa soprattutto per l'uso che se ne fà, sin dagli
anni sessanta, in ambito avanguardistico per determinare qualcosa che stà metà tra il teatro e le arti visuali e in rapporto con una nomenclatura specialistica che abbraccia il campo della sconfinata ricerca per un Arte Totale, per il superamento dei limiti tradizionali tra musica, parola, corpo, suono, immagine e concetto.



E infatti troviamo iI sostantivo "performance" in relazione agli eventi che si formano intorno all'arte concettuale e soprattutto "comportamentale", in equilibrio precario tra la cosiddetta "body art", l'esecuzione di certe partiture musicali contemporanee,
la declamazione poetica e l' "azione" pittorica autonoma e talvolta incontrollata di derivazione surrealista.


Performance, insomma, è un termine che più di altri designa una tendenza in realtà difficile da echettare in modo univoco e definitivo.

"Performers" sono chiamati coloro che, in generale, eseguono direttamente una azione artistica "dal vivo", in presenza di pubblico o di apparecchiature che ne amplificano i particolari e ne documentano lo svolgimento. Comunque, è la presenza física dell'attore "in scena" a far si che non ci siano dubbi sulla natura di un fenomeno ricchissimo di addentellati storici ed estetici.

Ci, piace, invece, far risalire l'origine della performance contemporanea al
famoso "Atto senza parole" di Samuel Beckett (rappresentato per la prima valía a Londra nel 1957) nel quale, anche in "assenza" dell'autore, una scrittura apparentemente didascalica diventa immediatamente "scittura scenica", laddove il senso della teatralità beckettiana supera i confini della pagina drammaturgica per diventare "regia" di una non-azione, straordinaria evidenza scenica dell'inutilità della vita stessa attraverso un montaggio di gesti che abitualmente si compiono in contrappunto alla grande stasi metaflsica della contemplazione del nulla.


Un altro importante momento cui occorre ritornare per rintracciare le diverse origini della performance è quello delle esperienze americane degli anni '50-'60, che andranno poi sovrapponendosi a quelle europee.

Si tratta, come è facile immaginare, dei cosiddetti "happenings"
(accadimenti) creati da Allan Kaprow o Robert Whitman e, in musica, da John Cage, La Monte Young e Nam June Paik.


Anche gli "environments" (ambientazioni) di Claes Oldenburg, Jim Dine e molti altri rappresentanti delle Pop-Art di quegli anni testimoniano a favore di un "Teatro dei Mixed Media", cioè dell'uso di diverse fonti e strumenti di comunicazione, strutturanti queste "azioni" o "eventi" come opere aperte al rapporto diretto col loro pubblico, con l'integrazione di pittura, scultura, teatralizzazioni, musica, danza, proiezioni, ecc.

E se citassimo, a questo proposito, la mega-performance
"Il corso del coltello" di C. Oldenburg e Coosje Van Bruggen (Venezia, 1985) potremmo verificare quanto il linguaggio pop americano sia precocemente invecchiato conservando immutate le sue componenti d'astuzia e perfezionando il livello tecnico e quello organizzativo.


Tuttavia l'happening (o "event") nasce in clime di Action Painting:
esso incarna un'intuizione precisa, testimonia che un qualsiasi avvenimento, nell'essere colto alla radice della sua istanteneità,
ma soprattutto nel suo essere isolato, eccepito dal flusso di tempi logicamente susseguenti in cuí si collocherebbe, con il suo essere, insomma, "incorniciato", acquista la forza di divenire simbolico.


Più tardi nasce anche il movimento "Fluxus", i cuí concerti o, anche qui, "eventi" sono azioni provocatorie e ludiche, manifestazioni di totale apertura ad ogni sorta di comunicazione non-tradizionale.

Quanto tutto ciò rappresenti spesso una lunga e articolata serie di stratagemmi che appartengono alla sfera del "tutto e arte" di duchampiana memoria, sarebbe abbastanza facile dimostrarlo attrayeso le solite considerazioni sul fraintendimento delle istanze dadaiste e surrealiste.

Ma non è mai corretto fingere di poter fare di tutta l'erba un unico fascio e liquidare cosi un fenomeno che ancora oggi riveste un'importanza considerevole nel panorama della ricerca contemporanea.

A parte le "provocazioni" Dada, fin dagli anni '20 la performance si intravvede nella costruzione di un linguaggio simbolico creato da Marcel Duchamp (la tonsura dei capelli, i travestimenti, le altre operazioni in cui compare l'immagine dell'artista), ed è anzi già bell'e presenté.. nene "serate futuriste" dal '13 in poi.

È questo u'n clima di "annessione"
(come scrive R. Barilli in "Tra presenza e assenza", 1975)
teso a qualificare esteticamente tutto ciò che direttamente proviene dall'arttista conseguenza estrema del rifiuto dell'oggetto codificato in favore di uno sconfinamento verso esperienze diverse che sono anche una messa in discussione del proprio ruolo.


Quando però l'accento cade ­e vi resta, purtroppo - su un atteggiamento analitico-sperimentale nei confronti dell'organismo umano ed animale (come, ad esempio, nel caso del "Gruppo di Azione" viennese, degli anni '60) il discorso apparentemente sadomasochista assume scarsa consistenza estetica e pericolose ambiguità ideologiche proprio nel momento in cuí propugna un'eversiva, libera­zione dai tabú sessuali.

Secondo Hermann Nitsch e il suo "Teatro dei Misteri e delle Orge", le azioni basate sullo sventramento di animali e sulla manipolazione degli escrementi e delle interiora rovesciate sul corpo nudo di assistenti, porrebbero lo spettatore di fronte ai propri tabù invitandolo a superarli partecipando a queste imprese, per raggiungere una dimensione liberatoria, pagana, or­giastica appunto, legata al piacere della regressione al corpo polimorfo.

Altri equivoci del genere - che perseguono un'ingenua ricerca sulla catarsi tragica - sono sempre legati ad una utilizzazione del corpa come matrice e supporto per ogni altra progettazione operativa.

Anche nelle performances che fanno riferimento in modo monomaniacale alle danze, infatti, e inevitabile che si insinui sempre un notevole scarto tra la dimensione física di quel che ci pone sotto gli occhi e quello che si intende dire.


Molto più interessanti sono le esibizioni performative degli sperimentatori musicali appartenenti alla cosiddetta "scuola olandese" (Mischa Mengelberg, Han Bennink, Willem Breuker) o quelle, diverse, dell'americana Laurie Anderson o, ancora, del gruppo catalano La Fura deis Baus.


Mentre in Italia le esperienze più significative degli ultimi anni sono legate agli ensemble teatrali (o meta-teatrali) e, in modo minore, agli operatori visuali che si riferiscono implícitamente all'ampio territorio "mentale" del decennio scorso, l'Europa di fine millennio riassume i frammenti di sé esportati in tutto il mondo dagli inizi dell'era moderna.

I grandi naufragi verso l'Asia, le Americhe, l'Africa, il Medio Oriente e lo spazio cosmico, ci restituiscono i sublimi relitti della nostra cultura come fuori dal tempo e dalla Storia, fuori di sé.

Non si tratta in questo caso di un semplice riflusso di citazioni e di atteggiamenti -
né di un ritorno a casa, perché la casa nel frattempo è andata distrutta -, ma di un varo e proprio "rendez-vous" ultra-ideologico sulle rovine di una nostra Troade.


L'impossibile "rientro" in patria non ci condanna paró solamente ad una vita da cavalieri erranti, da perenni viandanti, ma ci trasforma - come artisti e come poeti - in testimoni d'un Finale che si ripete, in demiurghi nel Nulla... angeli senz'aureola.

Qui sta l'assurdita del teatro, l'impossibilita del tragico.

Nuovamente impegnati sul piano etico, ma sganciati da false fiducie "progressiste", i linguaggi performativi attuali costituiscono, nella migliore delle ipotesi, un suparamento delle formule "stilistiche" precedenti a favore di una visionarieta progettuale che ritrova i margini dell' "assenza" riflettendo non solo "su" se stessi ma, finalmente, "contro" se stessi.

Massimo Zanasi, ottobre 1987